Giulio Carlo Argan sentenziava alla fine degli anni settanta la morte dell'arte.

Certamente Argan circoscriveva l'Arte, e di conseguenza la sua morte, ad un "sistema di tecniche legate al lento e personale lavoro artigianale". Pertanto con il concetto della "morte dell'arte" non voleva mettersi in lutto; voleva solo dire "che all'arte è succeduta una ricerca estetica con altri mezzi". Ed era proprio questo succedersi che per me non aveva senso. Nella contemporaneità ci sono sempre pluralità di forme espressive, poi la storia nel suo filtro entropico perde molte sfumature e lascia una traccia diacronica dell'evoluzione. Per meglio dire: quanto diceva Argan, lo vedevo contraddetto da molta produzione artistica che ancora fondava sui principi che lui decretava defunti.
Ma poi, a quasi quarant'anni di distanza, ecco la profezia avverarsi.
Io mi sono sopito per un po', mi sono distratto e come William Guest eroe della novella di Morris, mi sono svegliato e non ho più riconosciuto ciò che mi circondava.
Il sistema tradizionale era un modello basato sulla produzione artigianale con una massima qualità e una minima quantità: poteva essere raffigurato da una piramide con alla base gli oggetti comuni ed al vertice le eccelse forme di espressione artistica, oggi questo modello non è più adeguato. In una società caratterizzata dalla produzione industriale si deve assumere un modello raffigurabile come una spirale di variazioni infinite di prodotti di massa. Il nuovo modello è quindi caratterizzato dal progetto; e se questo è risultato valido per il design, lo si è messo in pratica anche per il prodotto artistico.
Ma l'arte, come un araba fenice, risorge sempre. Se da una parte l'evoluzione è stata nella moltiplicazione di un idea su scala industriale, dall'altra, la ricerca pura di un idea unica, ha spinto ad eccessi la cui forma estetica è ancora tutta da definire.
Pertanto se l'arte è morta, viva l'arte.