venerdì 9 novembre 2018

Non io, tu. Una riflessione sulla mostra di Elena Cantaluppi allo Studio Bolzani

Non io, tu 

Le teste scambiate 

di Thomas Mann 







Il mio primo "Non io, tu!" mi capitò di incontrarlo alla età di 10 o 11 anni. Era una storia a fumetti horror della serie zio Tibia contenuta in un prezioso fascicoletto che ci scambiavamo tra amici in cortile dopo la scuola. E lì, in quelle pagine, un finale a sorpresa: "Non io, tu!" Poi, dopo molti anni, un film. Quando lo vidi impiegai un po' di tempo a realizzare che il concetto lo avevo già gustato in un altro tempo è in un'altra forma. Dopotutto erano passati anni e una storia a fumetti lascia ben poche tracce. Il film vedeva un giovane Bruce Willis vestire i panni di uno psicologo infantile e, anche lì, il finale, anche se in forma diversa ma identica nella sostanza, si conclude con il colpo di scena: "Non loro, tu!". Ma non sono sicuro che l'epifania mi sia giunta proprio in quel momento,
forse allora provai un senso di "già vissuto". Quello che è certo è che la mia terza esperienza fu quella che tirò fuori definitivamente i collegamenti tra queste varie forme di "Non io, tu!". Ero in vacanza sul lago e mio figlio, dedito a letture meno trash di quando avevo le ginocchia sbucciate negli incidenti di cortile, in un'età all'incirca di quella che avevo io quando incappai nel mio primo "Non io, tu!", si dilettava della lettura di libri per ragazzi della serie "Piccoli brividi". In quel frangente, non avendo niente da leggere, pescai dalla sua scorta e qui incappai nel mio terzo "non io, tu". Ormai mi era ben chiaro lo schema. Lo sviluppo della storia, la creazione del sospetto, la quasi certezza, il colpo di scena finale che ribalta i ruoli. Ed è così che negli anni mi sono imbattuto in ben tre diverse forme di "Non io, tu!": il fumetto, il film e il libro per ragazzi. A questo punto, avendola trovata con cadenza irregolare, questa forma narrativa aveva assunto per me una regola aurea. Ora la ritrovo in un'altra forma di espressione artistica: la fotografia d'arte.
La fotografia d'arte è una forma di espressione artistica il cui senso non risiede prettamente nell'immagine. Quella è la fotografia pura e semplice. La foto artistica anela esprimere l'arte che è nell'artista; né più né meno che altre forme di espressione artistica come la pittura e la scultura. E cosa troviamo in questa serie di opere di Elena Cantaluppi se non una serie di opere all'insegna del "Non io, tu!"? Un "tu" che rimane nel riflesso delle vetrine dove simulacri di esseri viventi indossano vestiti che prossimamente saranno il complemento di qualcuno. Le immagini sembrano volerci ammonire: non sono io ad essere un inanimato essere senz'anima, ma sei tu ad esserlo. In una società disumanizzata parrebbe essere la vita artificiale ad umanizzarsi.

 Già nel 1992 J. Doyne Farmer e A. A. Belin preconizzavano che "... nel giro di 50 o 100 anni al massimo emergerà una nuova classe di organismi. Si tratterà di organismi artificiali, Nel senso che saranno progettati da esseri umani, ma potranno anche riprodursi e si evolveranno, assumendo una forma diversa da quella originaria; saranno insomma, organismi viventi, qualunque sia la definizione che si attribuisce a questo termine" 
Artificial Life: the Coming Evolution 

 Anche questa distopia sembrerebbe essere lontana da Cantaluppi tanto quanto quella del "Non io, tu!", ma forse la quadratura del cerchio arriva se si considera che noi non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo. Questa massima, che è del Talmud, sintetizza l'idea del rapporto dialettico esistente tra l'opera d'arte e lo spettatore, in relazione al rapporto esistente tra l'opera d'arte e il suo creatore. Spesso si sente la domanda: cosa significa? Cosa ha voluto dire l'artista? Questi sono sempre stati i veri "falsi problemi" dell'arte. Quello che vuole esprimere l'artista è una cosa, quello che è l'opera è un'altra cosa e, infine, quello che recepisce lo spettatore e altra cosa ancora. Tutto dipende dalla dialettica della mediazione tecnica, nel caso del rapporto tra l'autore e l'opera, e della dialettica tra opera e il bagaglio culturale dello spettatore nella lettura nella stessa; ovvero del Corpus mysticum cristallizzato nel Corpus mechanicum che visivamente lo spettatore percepisce. Da questa dialettica, quindi, mi nasce un legame della mia memoria con i manichini di Elena. Questi per me sono la formalizzazione di una società disumanizzata, e quindi incompleta, che, riflessa nelle vetrine, si ritrova a scaricare sugli altri il dramma della propria vita: "Non io tu!".  Questa sancisce l'inconsapevolezza degli individui di essere esseri incompleti. Tu, che sei me, e un me riflesso, incapace di sentirti unico, nel senso di unito e completo. Incapace di sentirsi manichino di se stesso, che spesso cerca nell'artificiale quanto rimane dell'umanità. Il manichino, quindi, come metafora dell'apparenza, che ci ammonisce con il suo silenzio dicendoci che: "non sono io ad apparire umano ma sei tu." Sei tu ad essere incompleto, tu che sei "quasi".

 E Thomas Mann? Beh, questo un'altra volta.