venerdì 4 agosto 2017

Polimorfismo dei luoghi d'arte

Non sono sicuro di come iniziare questa riflessione, dopotutto è un fenomeno ormai acclarato: le opere d'arte si fruiscono in molti luoghi. Alcuni di questi luoghi sono virtuali (web e televisione), altri sono reali, fisici, per dirla con un termine antiquato. Quelli chiusi da quattro pareti e un tetto o sono musei o sono altro.
Ed è proprio questo altro che si vorrebbe definire ed inquadrare in qualche modo. 
Una volta era più semplice, ora la complessità della nostra società richiede sforzi di fantasia.
Quante forme diverse richiede la contemporaneità per definire una attività che ormai ha già alle spalle un paio di secoli di rodaggio? Per trovare una parola per definire questi altri luoghi o attività connesse potremmo dire: galleria d'arte, associazione culturale, fondazione, studio d'arte, art advisoring e chi più ne ha più ne metta. Bisogna comunque notare che dalla seconda metà del secolo scorso, il moltiplicarsi delle definizioni ha subito una brusca accelerata. Se ancora nei primi del novecento le gallerie, almeno in Italia, avevano un matrice unica, o almeno molto simile, sicuramente l'esponenzialità della diversificazione delle formule costitutive la si ha con la fine del secolo e con l'inizio del nuovo millennio.
Già negli anni venti alcune librerie si prestavano ad ospitare delle mostre, soprattutto di quegli artisti legati alle avanguardie che erano affini, pur esprimendosi in modo visivo, a quei gruppi di intellettuali letterati con cui condividevano le pene della critica ostracista dei conservatori e la miseria economica tipica di chi cerca di muoversi contro corrente parlando fuori dal coro. Una necessità di trovare luoghi alternativi, mossa da eventi contestuali all'ambiente in cui si veniva ad operare, aiutati dalla solidarietà di amici ben intenzionati a trovar loro occasioni d'esprimersi. 
Ma oggi le necessità sono differenti. La legittimazione della trasgressione ha portato gli artisti ad agire isolati, senza cercare il conforto di altri intellettuali o di altri approdi per comunicare le proprie idee. Le alternative alla galleria non sono più quindi dettate dalla necessità culturale di una ricerca di consenso intellettuale, ma da una ricerca di una scappatoia nei meandri di una società che, pur comprendendoli, o comunque accettandoli dal punto di vista contenutistico, li ostacola sotto un profilo burocratico e legislativo. Le forme che prende quindi il sistema di distribuzione sono necessariamente diretta conseguenza di scappatoie giuridico formali atte a mantenere in vita un fragile sistema in perenne mutamento.
Avrete notato da questo preambolo confuso e arzigogolato che parlo di artisti e luoghi di distribuzione, sia materiale che intellettuale, indifferentemente, confondendone i ruoli. Un po' come se fossero una cosa sola e in effetti, per quanto qualcuno li consideri due controparti, io non riesco a vederli se non come un'unità interdipendente; una sorta di simbiosi, una medaglia con due facce, potremmo dire.
Non voglio entrare in argomento polemizzando contro gli stereotipi anti mercantilistici, cosa che si potrà fare in altro luogo, mi limito solo ad evidenziare come le difficoltà originate dalla stessa contingenza, siano condivise e condivisibili da entrambi i soggetti che, comunque giacendo su facciate opposte della medaglia, guardano troppo spesso in direzioni opposte senza rendersi conto che l'uno non può esistere senza l'altro (più o meno) e che dalla prosperità dell'uno dipende la prosperità dell'altro (più o meno).
Tornando all'inizio del discorso ... che dire? Forse che le varie forme giuridiche con cui si presentano i luoghi presuppongano un diverso contenuto? Oppure, come più probabilmente è, che ad ogni forma giuridica corrisponda un diverso modo di finanziarsi e di rapportarsi fiscalmente con una società in cui essi operano e che non capisce le peculiarità di una attività così diversa? Certamente la fiscalità ha contribuito molto a stimolare l'ideazione di nuove forme di definizione dell'attività di distribuzione, ma la cosa assume, nei momenti di crisi economica e di valori, un aspetto anche di necessità economica primaria, e da questo nascono i conflitti ed incomprensioni tra le due metà. 
Di recente ho letto sui social un post molto viscerale, e da quello sfogo personale di una parte incompresa, ho preso spunto per questa riflessione. 
Spesso gli animi si scaldano e le visioni contrapposte si incagliano in posizioni di radicale critica etica che, per quanto condivisibili in linea teorica, sul lato pratico mostrano solo un narcisistico disinteresse per per i problemi dell'altra metà del sistema che sperimentando, cerca solo una strategia di sopravvivenza. Comprensibili entrambi, condivisibili entrambi, deprecabili entrambi (non giudico e non prendo posizioni).

Ognuno idealizza la propria missione nel campo dell'arte facendo riferimento ad un immaginario che esiste solo per un esiguo drappello di fortunati o nei libri o nei sogni d'ambizione. Poi, con l'esperienza, infranti tutti i sogni, ci si deve adeguare alla realtà dei fatti.
Comunque tutto ciò non può e non deve essere liquidato con un semplice "così stanno le cose". Finché non si prenderà coscienza di essere tutti su una stessa medaglia, sulla stessa zattera che naviga in acque turbolente, bisogna imparare a cooperare. Bisogna imparare ad agire per l'interesse comune immedesimandosi nell'altro e cercando di portare il proprio contributo, senza vedere controparti, ma sodali ne proprio sistema vitale. Questi argomenti non li ha sfiorati Frank O'Hara nei suoi Consigli per artisti, ma correva l'anno 1952 e la cultura Beat non si faceva certo condizionare dagli aspetti pratici della vita di tutti i giorni. Non esistevano Fondi di investimento in arte come quello del British Rail Pension Fund o il Fine Art Fund che ora si chiama  Fine Art Group che gestisce $500 millioni in opere tra antico e moderno; non esistevano vendite plurimilionarie. Oggi invece si creano sogni avidi che contagiano anche chi si barcamena per conquistare un posto al sole, accontentandosi anche di un piccolo spiraglio.


martedì 1 agosto 2017

Marina Abramovic ci parla di Giacometti

Giacometti, un grande della scultura. Mai avrei pensato che Abramovic lo apprezzasse così tanto. Dopotutto il loro fare arte è diametralmente opposto. Ma l'arte, come si sa, è un linguaggio che si presta ad interpretazioni secondo la propria chiave di lettura. Quindi ascoltiamo la lezione di un artista su un altro artista: